Ho recentemente assistito ad un workshop sulle agevolazioni fiscali e finanziarie erogate dall’Unione Europea a piccole e medie imprese che intendano investire in ricerca e sviluppo di applicazioni per le nuove tecnologie digitali: la maggior parte dei partecipanti erano consulenti fiscali o legali, di imprenditori non vi era traccia, nonostante l’incontro fosse organizzato con un target ben mirato e dal taglio molto pratico. Con alcuni consulenti abbiamo avuto modo di confrontarci sulla situazione economica attuale in Italia durante i vari coffee break. Sono rimasto impressionato dalla banalità e dalla mancanza di argomentazioni professionali dei vari interlocutori con frasi del tipo: adesso è arrivato il momento di fare qualcosa, dobbiamo ribellarci, la crisi sta diventando una guerra tra poveri, siamo lasciati soli, quelli che ci rappresentano in Parlamento vivono in un mondo che esiste nella loro testa e così via. Stiamo parlando di avvocati e commercialisti che solitamente sono i primi consiglieri che dovrebbero fornire conforto ed assistenza a chi fa impresa. Invece quello che si percepisce oltra alla fiera della banalità, è una totale mancanza di visione e inquadramento economico su quanto sta accadendo sia a livello nazionale che internazionale.
Quanto sopra non vuole essere un colpo di mitra sulla croce rossa nei confronti di queste categorie professionali (avvocati e commercialisti) ma in termini generalisti, queste tipologie di professionisti si sono profondamente svilite nell’ultimo decennio: sicuramente esistono soggetti con profili di eccellenza, ma rappresentano ormai casi sempre più rari. Non vi è da stupirsi quindi se l’imprenditore medio sia in balia della tempesta perfetta, avendo avuto consulenti che in questi ultimi dieci anni di consulenza ne hanno fatta ben poca o hanno sempre vissuto su certezze che ora si stanno frantumando sotto i loro piedi. Ne ho avuto modo di scrivere proprio all’interno del pamphlet recentemente pubblicato, la peggior laurea che possiate far conseguire ai vostri figli attualmente è quella in giurisprudenza. Peggiore in termini di inutilità per il mondo che stiamo vivendo e per quello che verrà, soprattutto in ambito occupazionale. Mi permetto qualche volta di dare indicazioni e suggerimenti (vitali) a imprenditori per la riqualificazione della loro attività imprenditoriale, sia in ambito di assetto societario che fiscale, ma per quanto vuoi aiutare senza fini intermedi, la risposta che ottieni è del tipo: aspettiamo ancora un anno e dopo vediamo.
Che è come sentirsi dire da uno che sta morendo dissanguato: non mettiamo ora il laccio emostatico, ma aspettiamo a vedere se nel frattempo la ferita si cicatrizza da sola. Proprio questa è la condanna italiana della piccola e media impresa italiana: l’attesa ieratica che succeda qualcosa o che arrivi l’uomo della provvidenza stile Berlusconi nel 1994. Generazioni di piccoli imprenditori plagiati e circuiti tanto dalla cultura radical chic quanto dalla stagnazione intellettuale che li ha trasformati in ominidi della società moderna, incapaci di distinguere nello scenario politico la differenza tra uno sciacqualattuga ed un leader. Spesso sento dire che bisogna costituire un partito e iniziare a fare politica nell’interesse del settore produttivo. Fare un partito ? Ma avete idea che cosa serve per fare un partito in Italia ed avere successo politico, quel successo che ti consente di poter fare pressione all’establishment attuale e di imporre le tue richieste ? Ci vogliono almeno 20 milioni di euro (per arrivare forse tra un 5-7 % di consenso) e la disponibilità di un qualche strumento mediatico (giornale o televisione) a diffusione nazionale. Nel 1994 quando Berlusconi lancio Forza Italia spese oltre 20 miliardi solo per dare visibilità al partito ed al programma, senza contare l’organizzazione in risorse umane dal punto di vista logistico.
Secondo voi chi si mette in Italia a proporre un programma liberale di sostegno e propulsione alla piccola media impresa, conoscendo quanto denaro ha dovuto spendere Berlusconi in 20 anni di militanza politica tra parcelle di avvocati, ricorsi e procedimenti giudiziari (oltre 250 milioni di euro in assistenza legale). Alla fine quello che rimane sensato per chi ha una visione sul futuro che ci attende è la fuga dall’Italia, più che altro per ragioni di sopravvivenza. Intervistando chi ha scelto di delocalizzarsi fuori dai confini italiani, il sentiment che si pecepisce dall’imprenditore di turno è sempre lo stesso “adesso il 75% delle mie energie mentali sono dedicate ai miei clienti, alla ricerca della qualità per i miei prodotti e servizi, alle strategie per l’innovazione e la crescita del fatturato, il restante 25% invece per l’amministrazione della mia azienda sia dal punto di vista contabile, gestionale e soprattutto fiscale. In Italia avveniva il contrario”. Per questo motivo un imprenditore italiano quando va all’estero generalmente fa i numeri (come si dice in gergo popolare), ovvero ottiene risultati rilevanti che le altre aziende autoctone sul territorio si chiedono come abbia fatto. La risposta sta nel suo precedente periodo di tirocinio: nessuno altro, se non un italiano, ha potuto esercitarsi con denaro reale nel peggior Paese al mondo in cui fare impresa ed avviare un’attività.