Ora che l’emergenza sanitaria ha iniziato un lento ed inesorabile declino mediatico e che presumibilmente il COVID19 farà la stessa fine della SARS vale a dire che scomparirà silenziosamente in forma autonoma nei prossimi mesi, la nuova paura degli italiani si chiama imposta patrimoniale. Andiamo per gradi e proviamo a capire se in questo momento vi sono i presupposti per un suo concepimento. Sul piano politico sappiamo che nessuno dei partiti al governo è disposto ad avallare questa ipotesi in quanto produrrebbe un suicidio politico, tuttavia l’imposta patrimoniale se dovesse essere istituita avrebbe finalità principalmente emergenziali e straordinarie proprio come è stata la gestione della pandemia. A febbraio quando lo scenario macroeconomico era in piena evoluzione, il rischio di una imposta patrimoniale era piuttosto oggettivo soprattutto considerando gli effetti del lockdown, la contrazione del gettito fiscale, i vari ammortizzatori sociali concepiti per dare sostegno al reddito delle famiglie e supporto ai lavoratori autonomi ed alle piccole medie imprese. Proprio a fine febbraio l’Italia era diventata il secondo appestato di COVID19 in tutto il mondo, derisa spocchiosamente da tutte le altre nazioni: tuttavia oggi a distanza di oltre tre mesi il quadro clinico complessivo è mutato profondamente.
Sempre alla fine di marzo le agenzie di rating avevano allertato i mercati finanziari di un possibile downgrade nei mesi a venire, con Fitch Rating che aveva addirittura a sorpresa declassato il debito pubblico all’ultimo scalino dell’investment grade ossia il BBB (meno). L’ipotesi di un declassamento del debito italiano da investment a speculative grade iniziava a terrorizzare sia i gestori di investimento che i risparmiatori avveduti, rendendosi conto di cosa avrebbe rappresentato questo evento funesto. Possiamo dire che sino alla fine di aprile questo tipo di rischio per l’Italia era sistemico ed oggettivo. Tuttavia in maggio l’Unione Europea ha finalmente fatto comprendere in forma risoluta la sua determinazione nel voler difendere tutto e tutti all’interno dei confini europei. La scorsa settimana il PEPP è stato innalzato a 1350 miliardi dai 750 iniziali di metà marzo con la promessa da parte della Banca Centrale Europea di acquistare i titoli del debito pubblico ad infinitum, succeda quel che succeda. Tali impegno è stato enfatizzato anche nel caso di un possibile downgrade. Per semplificare sappiamo che almeno fino a tutto il 2021 il fortino europeo ci difenderà dai vandali finanziari.
Oltre al PEPP vi è in gestazione anche il Recovery Fund il quale presuppone l’erogazione di fondi a contributo perduto a patto che la nazione europea che ne farà richiesta provveda ad avviare ed implementare un corposo programma di riforme strutturali per efficientare la propria economia: questo video fa comprendere che cosa significa questa opportunità. Se l’Italia sarà in grado di cogliere l’occasione allora potrà creare le condizioni economiche per rendere il proprio debito sostenibile finanziariamente anche a fronte del recente aumento in proiezione del rapporto depito/pil che supera abbondantemente il 150%. Oggetto di preoccupazione è proprio la sostenibilità del debito dal 2022 in poi quando termineranno le condizioni di eccezionalità che sono in vigore in Europa a seguito della pandemia: mi sto riferendo alla procedura per eccesso di debito ed il patto di stabilità. Dal 2022 tutta Europa ritornerà in condizioni di normalità contabile e qualora la capacità di recupero economico dell’Italia sarà inferiore rispetto alle altre nazioni europee a quel punto possiamo iniziare a paventare diversi scenari avversi per il nostro paese tra cui l’istituzione di una wealth tax (forse una tantum) per riportare in condizioni di sostenibilità il rapporto debito/pil in relazione al potenziale di crescita che esprimerà la nazione tra 18 mesi.
Pertanto durante la seconda parte dell’anno e tutto il 2021 non appaiono essere credibili le ipotesi di una imposta patrimoniale in forza delle nuove reti di protezione finanziaria dell’establishment sovranazionale europeo e la fase temporale di limbo finanziario cui potranno godere tutte le nazioni europee. Sarà dopo il 2021 che questo tipo di rischio potrebbe manifestarsi qualora da parte italiana non si implementeranno riforme strutturali alla governance costituzionale, alla fiscalità generale, al mercato del lavoro, alla flessibilità e meritocrazia nella pubblica amministrazione o alla razionalizzazione della spesa previdenziale. Sono tutte intenzioni molto prosaiche che sul piano pratico produrranno la eliminazione di privilegi per milioni di italiani. Questo significa fare le riforme in Italia: togliere privilegi. In questo momento gli investitori istituzionali più pessimisti sull’Italia hanno iniziato ad alleggerire o meglio liquidare interamente le loro posizioni strategiche sui titoli di stato italiani (attualmente sostenuti nelle quotazioni proprio dalla nuova politica ultra espansiva della BCE) nella convinzione che l’attuale classe politica italiana non sarà in grado di dare avvio al cambiamento. Con questo scenario oltre alla wealth tax si dovrebbe ipotizzare anche un’Italia che esce dall’euro di forma volontaria o peggio coatta.