Durante gli ultimi 30 anni abbiamo avuto tre grandi crisi sistemiche che hanno modificato l’economia in misura strutturale con impatti sociali di elevata intensità: il crollo del socialismo sovietico nel 1989 e la successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica (USSR), la crisi delle tigri asiatiche del 1997 conosciuta come Asian Financial Crisis ed infine la Subprime Mortgage Crisis del 2008 più nota giornalisticamente come il Fallimento di Lehman Brothers. Con il 2020 possiamo aggiungere anche la Pandemia di Coronavirus di Wuhan come quarta crisi sistemica a livello mondiale. Attenzione: durante questi trent’anni abbiamo avuto anche altre crisi finanziarie piuttosto conosciute come il default del debito argentino, lo sboom delle dot.com o la crisi del debito sovrano europeo, tuttavia tali eventi non produssero cambiamenti economici strutturali che hanno interessato almeno la metà del mondo. Il 2020 rappresenta infatti un anno di grande cambiamento economico a livello mondiale in quanto tutti i trends di trasformazione tecnologica che erano già in atto sono stati caratterizzati da una improvvisa e sostenuta accelerazione. Dobbiamo in tal senso considerare il 2020 alla pari di un nuovo 1989 ossia un anno che ha fatto da spartiacque tra lo storico dualismo comunisimo/capitalismo e l’ascesa della globalizzazione.
Con il 2020 assistiamo infatti al passaggio di consegne dalla new economy alla digital economy ed all’avvento della slowbalization ossia l’era della deglobalizzazione. Il coronavirus di Wuhan con la pandemia ed il lockdown spinge o addirittura obbliga oltre due miliardi di persone in tutto il mondo a lavorare in modalità smart working facendo conoscere nuove tecnologie di comunicazione e nuove modalità di interazione sociale. L’impatto sociale sul mondo del lavoro è disruptive: molte aziende scompariranno velocemente a causa di obsolescenza tecnologica e mancanza di innovazione digitale, mentre quelle che avevano iniziato in precedenza il passaggio alla gestione digitale di tutto il loro business model sopravviveranno e miglioreranno notevolmente il loro potenziale di mercato. Nel caso dovesse verificarsi una nuova ondata di contagio nella seconda parte dell’anno le conseguenze complessive saranno ancora più disruptive. La slowbalization scaturisce invece dalla necessità delle grandi aziende di ristrutturare tutta la propria supply chain in modo tale da rendere il proprio approvviggionamento produttivo più resiliente: finisce pertanto l’era della delocalizzazione a larghe distanze in paesi che in futuro potrebbero nuovamente essere colpiti da nuovi lockdown produttivi.
Ogni governo occidentale inoltre ha già iniziato ad esaltare e propagandare il ritorno ad un sano nazionalismo economico in cui si dà precedenza e preferenza alle proprie peculiarità nazionali: questo tipo di comportamento lo vedremo già questa estate proprio con il settore turistico. Le limitazioni alla mobilità personale ed i rischi di recarsi in un paese con discutibili processi di sanificazione delle proprie strutture turistiche spingerà sempre più persone a rivalutare il mare, il lago e la montagna di casa propria. Non dimentichiamo in tal senso che il 40% di tutto l’incoming turistico mondiale viene assorbito dalle nazioni europee bagnate dal Mediterraneo: Spagna, Francia, Italia, Croazia e Grecia. La slowbalization inoltre è stata inizialmente innescata dall’America First di Trump che ha dato avvio alla trade war con la Cina: entro fine anno sapremo a seguito dell’esito delle presidenziali statunitensi se questo tipo di conflittualità geopolitica sarà inasprita o ammorbidita nel caso di vittoria di Biden. Tuttavia è all’interno della sfera d’azione dei mercati finanziari che abbiamo visto grandi cambiamenti i quali si ripercuoteranno nella strategie decisionali di asset allocation di medio e lungo termine.
Il Coronavirus di Wuhan infatti quando se ne sarà definitivamente andato ci lascerà con i tassi di interesse più bassi di quelli che avevamo alla fine del 2019. Tale circostanza purtroppo non sarà passeggera e patologica, quanto piuttosto permanente e fisiologica: le imponenti espansioni monetarie varate dalle banche centrali di tutto il mondo occidentale determineranno la necessità di controllare la curva dei rendimenti nel lungo termine in modo da mantenere sostenibili i debiti pubblici delle nazioni occidentali. Questa circostanza di mercato sta già generando una nuova metrica di valutazione delle asset class rischiose (leggasi azioni) nella consapevolezza che in futuro non avremo una ricerca di rendimento, ma una caccia al rendimento. Questo è quello che viene definito il New Normal 2.0 ossia una nuova normalità nel rendimento del reddito fisso che obbligherà ad alzare anche al 70% il peso dell’equity all’interno del proprio portafoglio pur di ottenere un qualche rendimento. Si tratta di un cambiamento epocale nella gestione del rischio e nella ricerca del rendimento: il 5% facile e senza rischi, a cui erano abituati in area euro milioni di piccoli risparmiatori, rappresenterà una mission impossible. Il peso delle azioni all’interno del proprio portafoglio dovrà più che raddoppiare rispetto alla consueta ripartizione 30/70 a cui anche gli italiani erano abituati ossia 70 il peso del reddito fisso e 30 il peso dell’azionario.