Nel 1589 un sacerdote inglese, William Lee, ideò la prima macchina da maglieria al mondo per la realizzazione di calze da donna. Le cronache narrano che il desiderio di realizzare una siffatta invenzione fosse dovuto all’insuccesso amoroso nei confronti di una donna che non aveva manifestato interesse al suo corteggiamento. Fatalità tale donna era una proprio una cucitrice a mano di calze, oltre a questa qualche anno più tardi un’altra donna di spessore sociale più nobile gli palesò un secondo rifiuto. Si trattava della Regina d’Inghilterra e d’Irlanda, Elisabetta Tudor, la quale gli negò la possibilità di brevettare la sua invenzione. La regina temeva infatti che tale diavoleria tecnologica di allora potesse produrre nefaste conseguenze all’occupazione femminile inglese, che si fondava essenzialmente su milioni di donne che cucivano a mano e che con questa attività potevano pertanto procurarsi un salario, solitamente a cottimo. Non è una novità: nel passato della storia umana, la tecnologia non è stata mai tanto ben accolta, anzi. Il nuovo che avanza ha sempre spaventato, la maggior parte delle persone non sono ben disposte ai cambiamenti radicali, quelli che producono modifiche sostanziali agli stili di vita ed anche alle posizioni di rendita. La quarta rivoluzione industriale che stiamo vivendo porta con sé proprio questi stessi paradigmi: chi emergerà come il nuovo che avanza e chi si estinguerà per obsolescenza o peggio inutilità. Le proiezioni più confortanti ci dicono che per ogni professione che perderemo ve ne sarà altrettanto una nuova pronta a rimpiazzarla.
Stiamo parlando ovviamente delle ipotesi più ottimistiche, quelle che vengono veicolate anche per creare una coscienza collettiva pronta ad accogliere il nuovo che avanza con tutte la sua forza distruttiva. La probabilità che il nostro mestiere o professione possa essere portato all’estinzione dalla digital economy dipende da tre elementi soggettivi: il livello di responsabilità che implica quello che sto facendo, il grado di istruzione e la possibilità che quanto sto già facendo possa essere erogato mediante il teleworking. Queste aspettative non sono omogenee dipendono infatti anche da un quarto elemento esogeno: la nazione. Alcuni paesi in Europa saranno maggiormente colpiti di altri dalla lenta propagazione e penetrazione della digital economy. Per l’Italia si stima che quasi il 40% dei posti di lavoro siano ad elevato rischio di soccombenza e/o sostituzione, negli USA si arriva al 50% e per la Germania sarà anche peggio, quasi il 60%. Si tratta nel migliore dei casi di di uno su tre, mediamente. Anche questo dato rappresenta una bomba sociale, di cui per ovvie ragioni politiche, non si desidera più di tanto parlarne a livello mediatico nazionale, spostando continuamente l’attenzione su tematiche frivole o socialmente aberranti.
Tuttavia una parte significativa del main stream ritiene che si manifesteranno anche straordinarie opportunità di miglioramento e sviluppo professionale. Identificare quali settori e quali professioni saranno più esposti al cambiamento può aiutarci fare un primo passo per la comprensione di questa evoluzione sociale attualmente in atto. Tuttavia proprio come accadde per William Lee circa quattro secoli fa, potrebbero verificarsi nel prossimo futuro comportamenti similari da parte di molte forze politiche volte a preservare lo status quo ed anche il loro consenso sull’elettorato. Non basta mettere in conto che ci saranno i droni di Amazon a consegnarci i plichi della merce acquistata online qualche ora prima, si tratterrà di vedere se tali droni potranno in termini puramente legali circolare stante la legislazione che potrà essere implementata per sopprimere tale avanzata tecnologica. Una recente ricerca molto pubblicizzata all’Università di Oxford ha concluso il suo lavoro di investigazione su questo tema con una semplice domanda, che tutti dovrebbero iniziare a porsi: dimmi che lavoro fai e ti dirò quanto tempo hai ancora di vita, lavorativa ovviamente. A questo link potete visionare il tutto. Sostanzialmente vengono analizzati la struttura del mercato del lavoro di ogni settore economico, il livello di digitalizzazione attuale ed il rischio che tutto questo sia sostituibile con qualcosa che non sia umano. Ad esempio, trasporti, agricoltura ed allevamento e vendite al dettaglio sono caratterizzati da una percentuale di probabilità prossima al 100%, che significa certezza di perdita per sostituzione del posto di lavoro. Tuttavia anche all’interno di questi stessi settori è necessario porre un distinguo, la posizione gerarchica infatti può rappresenta una discriminante. Un soggetto umano che deve prendere decisioni strategiche e che coordina altre risorse umane è piuttosto difficile che sarà sostituito: della serie il vostro capo non lo tocca nessuno (per adesso).
Il detto ho perso il posto di lavoro per colpa di un robot è sempre più spesso il titolo ridondante di un articolo di giornale, come se qualcuno volesse innescare una faida tra macchine ed essere umani. Dubito che la mia generazione possa beneficiare in senso trasversale di questo nuovo impulso e cultura di innovazione tecnologica. Con presunzione vi saranno nazioni che ne beneficeranno in termini di aumento della produttività e di livelli salariali, tuttavia ve ne saranno altri che soffriranno pesantemente il tutto con ottica diametralmente opposta: l’Italia è uno di questi. Le motivazioni si possono individuare su due grandi aree di discriminazione: il percorso di formazione accademica e la politica di incentivazione alla creazione dei posti di lavoro, oltre alle facilitazioni per la creazione d’impresa. Purtroppo circa un terzo delle giovani generazioni italiane sono completamente impreparate ad affrontare la trasformazione del mercato del lavoro e l’evoluzione delle professioni. Per quanto un qualche governo voglia continuare maternamente a proteggerli non vi sarà modo di arginare l’evoluzione tecnologica in atto e la sua diffusione nel pianeta. Non è una novità, accadde proprio lo stesso anche a William Lee, il quale non trovando conforto e supporto in un regnante inglese, decise di rivolgersi ad uno francese, allora Enrico IV, il quale consentì a brevettare la sua invenzione dando in questo modo avvio ad un primo stadio embrionale della rivoluzione tessile che manifestò tutta la sua forza dirompente il secolo successivo.