Da inizio anno l’indice americano ha subito una correzione di quasi il 10% passando dagli oltre 2850 punti agli attuali 2600: non è stata la minaccia di un ritorno aggressivo dell’inflazione a cui sarebbe successivamente avvenuta una revisione delle politiche monetarie ad avviare il downtrend, quello su cui tutto sommato si confidava e temeva durante la fine del 2017. Nemmeno lo scandalo Cambridge Analytica o il cambio di outlook sul business model di Tesla hanno significativamente modificato il mood dei mercati, infatti le paure principali oggi sono incentrate universalmente parlando sulle nuove restrizioni doganali imposte dal Governo Trump nei confronti di alcuni beni e prodotti strategici importati dalla Cina (ricordiamo soprattutto il 25% sull’acciaio ed il 10% sull’alluminio). Quest’ultima non ha perso tempo a tergiversare ed ha fatto copia ed incolla colpendo con aggressività laddove avrebbe causato maggiori ripercussioni economiche agli States. L’anno denominata la trader war ossia la guerra commerciale con l’istituzione di dazi doganali con il fine di danneggiare l’ascesa minacciosa di un proprio rivale. Tanto per cominciare Trump non ha fatto niente di sorprendente: infatti si sta limitando ad implementare la sua agenda politica. Spaventa proprio per questo: è il primo leader politico occidentale che effettivamente rende esecutive le proprie promesse rilasciate durante la campagna elettorale. Per Trump l’attuale deficit commerciale degli States rappresenta un tipico fattore di debolezza strutturale stando al suo approccio dirigista.
L’America importa più beni di quanti ne esporta, ormai siamo a oltre 370 miliardi di dollari, dato che scaturisce dalla differenza algebrica di 500 miliardi di importazioni contro 130 miliardi di esportazioni. Tale posta di natura macroeconomica dimostra la debolezza del paese in contrapposizione invece all’avanzata del gigante asiatico che conquista anno dopo anno sempre più quote di mercato invadendo letteralmente altre nazioni grazie alle facilitazioni doganali rese possibili dal WTO. Da qui l’esternazione di Trump proprio contro il WTO, reo di favorire la nuova politica economica di penetrazione ed espansione mondiale della Cina alla guida di Xi Jinping. Come già enunciato in altri precedenti redazionali, la governance presidenziale di Trump ha un approccio dirigista, vale a dire che utilizza tutti gli strumenti a sua disposizione per esercitare una forte influenza sui settori produttivi, attraverso un sistema di incentivi o dazi di protezione che indirizzano gli investimenti delle piccole e medie imprese verso quello che viene riconosciuto come l’interesse generale della nazione (massima occupazione, stabilità finanziaria e crescita sostenibile). La Cina ha contrattaccato per ora con una serie di misure decisamente modeste (principalmente frutta, prodotti alimentari di derivazione suina ed alcune tipologie di vino). Di certo non hanno messo a punto l’artiglieria a Pechino e se ne guardano bene a farlo per ora: i primi a perderci sul breve termine potrebbero essere proprio loro infatti.
Tuttavia ha colpito per ferire dove più serviva ossia sul fronte politico, infatti saranno proprio gli stati cosiddetti agricoli a subire il maggior impatto dei nuovi dazi cinesi (che colpiscono appunto agricoltura ed allevamento). Non dimentichiamoci infatti delle elezioni di Mid-Term durante il mese di novembre (composizione del Congresso, assemblee elettive degli Stati e oltre i 2/3 dei rispettivi governatori): l’esito della prossima tornata elettorale infatti rappresenta per definizione un giudizio sull’operato del Presidente definendo le nuove linee operative per la fine del mandato presidenziale. Trump ha l’obiettivo di portare il deficit commerciale a 100 miliardi, per questo è tornato nuovamente all’attacco in questi ultimi giorni affermando che la Cina ruba impunemente proprietà intellettuali negli USA grazie ai suoi canali di spionaggio industriale. Per chi non lo sapesse negli USA è perseguibile anche a livello federale il furto di proprietà intellettuale (in pratica rubare la semplice idea di un altro, da non confondere con l’utilizzo indebito di un brevetto): provate a parlare di questa ipotesi con un avvocato italiano e si metterà a ridervi in faccia. Proprio su questo piano Trump ha intenzione di colpire anche i prodotti ad elevato know how tecnologico (circa 1.300 prodotti) ben sapendo come il primo mercato di riferimento sia quello americano. La Cina sarà invece pronta ad alzare il tiro colpendo rispettivamente le importazioni americane di prodotti a base di soia, aeromobili ed automobili. Ciononostante a perderci maggiormente anche in questo caso sarà ancora la Cina.
Solo nel 2017 le importazioni cinesi degli States sono aumentate del 9%: un brusco arresto in tal senso avrebbe un contraccolpo decisamente dannoso per l’economia di Pechino, in un momento tra l’altro molto delicato per la fase di trasformazione socioeconomica in atto. Washington è ben consapevole che al ritmo odierno entro il 2025 la Cina si convertirà nel paese leader al mondo per tutto l’high tech, facendo andare presto nel dimenticatoio mediatico la Cina delle produzioni internazionali delocalizzate a basso valore aggiunto. In tale ambito gli States importano dalla Cina soprattutto device portatili e semiconduttori, oltre ad accessori per telefonia mobile. Solo gli smartphone producono un giro d’affari di oltre 70 miliardi di dollari, senza dimenticare comunque elettrodomestici e televisori di ultima generazione. Nonostante le paure di Wall Street sull’inizio di una faida doganale totale tra USA e Cina, le principali agenzie di analisi finanziarie ritengono che tale eventualità si debba considerare piuttosto remota in quanto gli effetti collaterali a livello planetario danneggerebbero sensibilmente entrambi i due players, quindi quella che viene definita come una lose lose situation dalla teoria dei giochi. Molto probabile invece che quanto sta andando in scena sia una tattica di negoziazione di Trump per consentire di abbassare il deficit nel breve e medio termine obbligando molte corporations cinesi a trasferirsi sul suolo americano per produrre la stessa merce che poi verrà venduta in America senza che sia importata. In questo modo Trump potrà aumentare ancora una volta il numero di posti di lavoro creati durante il suo mandato e consolidare la sua immagine presidenziale.