Provate a chiedere ad un vostro conoscente o collega che cosa ne pensa della Borsa in generale o che cosa secondo lui quest’ultima rappresenta. Con grande presunzione vi sentirete dire che è una organizzazione di magnaschei (spazza soldi) concepita per portare via legalmente il denaro alle persone sprovvedute e credulone. Rappresenta secondo taluni pensatori lo strumento per gabbare il gregge dei piccoli risparmiatori ed accompagnarli ignari allo scannatoio (purtroppo). Per la maggior parte delle persone plagiate da una ridondante cultura sinistroide radical chic, la Borsa rappresenta l’arena in cui sguazzano gli speculatori che si arrichiscono grazie alle loro commistioni con le banche d’affari ed i salotti della finanza italiana. In buona sostanza, per provare a condensare tutte queste fuorvianti impressioni, la Borsa è concepita come un luogo astratto in cui si fanno gli interessi sporchi di poche persone, pertanto il tutto produce agli occhi dell’opinione pubblica una connotazione molto negativa. Invero la Borsa dovrebbe essere il cuore del sistema finanziario di ogni paese, una piattaforma di settlement in cui convergono e trovano manifestazione finanziaria gli interessi più nobili per un sistema capitalistico.
Nello specifico consentire a chi ha idee e risorse imprenditoriali di poter ottenere capitali di rischio da chi invece è alla ricerca di forme di impiego e remunerazione del rischio di impresa. In tal senso la Borsa rappresenta una modalità di finanziamento tanto per la piccola quanto per la grande impresa che in questo modo possono staccarsi in misura significativa dal canale bancario tradizionale. In Italia per convinzione popolare si ritiene (erroneamente) che l’accesso al mercato dei capitali di rischio sia consentito solo per le grandi imprese. Di fatto non si è mai sviluppato una cultura finanziaria di matrice anglosassone in cui chiunque avesse merito e credibilità sarebbe stato in grado di riuscire a realizzare le proprie aspettative imprenditoriali grazie al funding di matrice non bancaria. Per provare a spiegare questo ultimo passaggio, considerate che in Italia circa il 90% delle fonti di finanziamento per le piccole e medie imprese è rappresentato dal solo partner bancario, sostanzialmente il ricorso al prestito di risorse finanziarie con istituti di credito. In Europa la media di mercato oscilla tra un 40% ed un 50% a seconda del paese in questione. Pertanto possiamo sostenere con rammarico che il tessuto imprenditoriale italiano è banca-dipendente e questo rappresenta tanto un limite quanto una vulnerabilità.
Ce ne siamo resi conto proprio in questi ultimi anni a seguito del credit crunch: di riflesso inoltre questo assetto finanziario ha finito per danneggiare anche lo stesso sistema bancario italiano che oggi deve fronteggiare i quasi 200 miliardi di sofferenze. L’imprenditore italiano medio, soprattutto quello delle regioni settenrionali, si è sempre distinto per una accentuata vocazione imprenditoriale (desiderio di affrancamento sociale dalla povertà del passato), tuttavia il suo operato è sempre stato caratterizzato da un modesto conferimento di capitali di rischio in quanto per gelosia imprenditoriale si è sempre preferito rivolgersi a partner finanziari esterni (leggasi banca) a seconda delle varie contingenze piuttosto che condividere con altri soggetti l’intera missione imprenditoriale. La gelosia della propria impresa ha prodotto nel tempo anche quei fenomeni di mercato che si sono dimostrati operatori di eccellenza cui tutto il mondo guarda nel tentativo di replicare il loro modello di business. Per uno che che ce la fa grazie alla peculiarità della sua impresa, ve ne sono altri cento che rischiano di soccombere se non ristrutturano finanziariamente la propria azienda. L’Italia ha sviluppato con questo modus operandi negli ultimi 50 anni un capitalismo cosidetto familiare o di relazione ovvero un modello di sviluppo e sostegno d’impresa in cui solo le “grandi famiglie” riescono ad accedere a corsie preferenziali per l’accesso al credito nei confronti dei vari partner bancari.
La nuova rivoluzione industriale che stiamo vivendo (web 3.0 e globalizzazione) impone che anche i piccoli imprenditori mutino profondamente il loro approccio al mercato dei capitali di rischio, abbandonando “mamma banca” come unico interlocutore finanziario ed aprendosi alle potenzialità che oggi offrono il mercato dei capitali non convenzionali come il crowd funding e gli AIM (Alternative Investments Market) gestiti dalle varie piazze finanziarie. Su questo punto comunque in Italia è necessario un repulisti che ridisegni completamente la fiscalità per i soggetti che apportano capitali di rischio all’interno delle PMI, diventa infatti controproducente per la stessa salute dell’economia reale una tassazione come quella attuale al 26% sugli strumenti finanziari in genere. Un paese come l’Italia, ad elevata vocazione microimprenditoriale, dovrebbe a tal fine incentivare mediante ingenti sgravi fiscali chi decide di investire direttamente in imprese già esistenti tanto quanto di nuova costituzione (start-up e private equity). Questo consentirebbe di ricreare le condizioni per sviluppare in pochi anni un fiorente mercato dei capitali di rischio che possa far da volano alle PMI e consentire alle stesse di potersi sganciare dal mondo bancario tradizionale. Al momento nessuna forza politica ha in programma una rivoluzione fiscale in tal senso: oltre alla politica industriale manca interamente anche quella di sostegno finanziario e fiscale alle PMI.