La recente defaiance finanziaria in Argentina ha riportato con i piedi per terra molti analisti e commentatori finanziari. Da inizio anno si sprecano i commenti positivi sulla crescita mondiale, sul buono stato di salute degli USA, della stabilizzazione della Cina a fronte delle sue imponenti misure strutturali di cambiamento epocale a firma del suo presidente, Xi Jinping, tuttavia da qualche settimana si evidenzia un significativo cambiamento del mood degli operatori istituzionali che hanno alzato lo sguardo e temono un possibile deterioramento del quadro macroeconomico complessivo. Per adesso i timori principali si concentrano sul cambiamento di outlook dei paesi emergenti in forza di due fattori esogeni: il primo è rappresentato dalle sbandierate misure protezionistiche volute da Trump a difesa dell’economia statunitense ed il secondo è individuato dal rialzo dei tassi di interesse sempre negli States. Analizziamoli congiuntamente e cerchiamo di comprendere quali impatti causano sui mercati finanziari e sulle economie dei paesi emergenti. La cosiddetta guerra commerciale rischia di trasformarsi in un boomerang per tutto il mondo nel giro di poco tempo se dovesse essere aumentata nella dimensione ed ampiezza degli interventi. Vale a dire che sino ad oggi abbiamo visto ancora poca cosa, le nuove tariffe doganali che colpiscono alcuni prodotti importati negli USA ed altri esportati in Cina tutto sommato non hanno modificato sostanzialmente gli equilibri e le dinamiche del commercio mondiale: vi è stata solo una breve ed insignificante pioggerellina a guastare gli umori, soprattutto quelli cinesi.
Il rischio finanziario invece è rappresentato da una amplificazione ed estensione di tali tariffe doganali ad altri settori merceologici o categorie di prodotti (come ad esempio gli autoveicoli) che a quel punto causerebbero effetti deleteri più per la Cina che per gli USA a fronte del deficit commerciale americano (significa che l’America di Trump importa molto più di quanto esporta). Se la Cina in questo momento della propria vita inizia a rallentare o peggio si arresta a causa di una conclamata faida commerciale le conseguenze non tarderanno ad arrivare, ma non per gli USA quanto piuttosto per i paesi emergenti. Questi ultimi hanno assunto durante il passato decennio una dimensione quasi satellitare nei confronti dell’economia cinese: significa che se alla Cina viene il raffreddore, agli emerging markets (EM) arriva purtroppo l’influenza spagnola. Soprattutto gli ASEAN (Filippine, Vietnam, Cambogia, Indonesia, Malesia e Thailandia) ossia le nazioni del sud est asiatico diventato il vero motore della crescita mondiale con PIL mediamente oltre il 5% all’anno. Stiamo parlando della terza macro area geografica del mondo per popolazione dopo Cina ed India con oltre 600 milioni di abitanti, la cui età media è inferiore ai 30 anni per oltre la metà della popolazione. In Europa siamo al di sotto del 30% e questo dovrebbe far comprendere chi contribuisce alla crescita dei consumi mondiali. Pertanto un rallentamento alla crescita degli EM a seguito di un inasprimento dei rapporti commerciali, già delicati, tra Cina e United States impatterebbe nel medio lungo termine anche su questi ultimi per la perdita di indotto commerciale. E questo a Washington lo sanno bene.
Tuttavia per la prima volta nella storia moderna abbiamo un presidente americano che sta realizzando quasi tutto quello che ha promesso in campagna elettorale: anche questo aspetto rappresenta una minaccia per la crescita economica mondiale in quanto la totale implementazione dell’agenda di Trump produrrà nel breve termine un effetto overboost all’economia statunitense che si scontrerà presto con le avvisaglie di recessione interna quando arriveranno gli effetti del rallentamento economico di altri paesi partners (come ad esempio proprio gli ASEAN). Il secondo fattore esogeno che sta minacciando la crescita e stabilità degli EM è rappresentato dalla risalita dei tassi di interesse negli USA che a sua volta produce un rafforzamento del biglietto verde. Lo abbiamo visto proprio in queste ultime settimane, tutte le principali valute emergenti hanno perduto vistosamente contro il dollaro americano, eclatanti sono i casi della lira turca e del pesos argentino. Il tutto è correlato alla dimensione degli investimenti stranieri effettuati sul debito emergente in valuta locale, pertanto man mano che si alza il rendimento del decennale statunitense (ormai al 3%) si verificano i deflussi per smobilizzo delle posizioni. Sul piano pratico significa che si vende il debito emergente in valuta locale e si acquista invece quello statunitense. Le conseguenze di questo smobilizzo di capitali le vediamo sui rapporti di cambio, le valute emergenti crollano anche vistosamente, mentre il dollaro americano si rafforza. Ovviamente una economia emergente che si ritrova in poco tempo con una caduta del suo potere di acquisto deve metabolizzare ed arginare questa emorragia finanziaria.
Nella maggior parte delle volte interviene la rispettiva banca centrale che rialza i tassi per tentare di rendere più attraente la propria valuta, così facendo tuttavia produce una consistente contrazione alle quotazioni delle obbligazioni a tasso fisso espresse in valuta locale, che a loro volta si ripercuotono sulle quotazioni degli strumenti finanziari che investono su di esse (ad esempio gli ETF o i fondi comuni di investimento). Ecco il motivo che spiega le recenti correzioni ai NAV dei fondi di investimento specializzati in questa asset class. Come se non bastasse adesso oltre a questo scenario avverso si è aggiunto anche il petrolio con le note turbolenze di mercato che caratterizzano sia l’Iran e sia il Venezuela. Il greggio in due anni è passato dai 35 agli oltre 70 dollari pertanto con una performance che nessuno si aspettava in via preventiva. Se una quotazione dell’oro nero giova sicuramente a paesi in punto di pronunciare un default conclamato come il Venezuela, per altri paesi emergenti, soprattutto più correlati alle dinamiche dei settori manifatturieri, questo impatta negativamente sul potenziale della loro crescita e stabilità finanziaria. In tal senso quindi avrebbe significato optare per un atteggiamento selettivo nei confronti degli EM e delle loro asset class puntando su quelli che possano maggiormente beneficiarne nel breve termine come Brasile e Russia, mettendo invece da parte nazioni come l’India ed il Sudafrica più correlate al ciclo dei consumi interni. Nel panorama finanziario odierno gli EM mantengono tuttavia il loro appeal a fronte di una significativa convenienza delle varie asset class quotate (equity e fixed income) rispetto a quelle delle economie sviluppate gonfiate da anni di politiche monetarie ultra espansive.