Tra i paesi che sono al mondo più a rischio di default troviamo al primo posto il Venezuela, non è una novità questo dato, il paese sudamericano guidato da Maduro si vanta di questo primato da numerosi anni. Il Venezuela detiene anche il record di economia più miserabile del mondo, tale ulteriore primato viene assegnato alla nazione che detiene il Misery Index più elevato in assoluto, quest’ultimo è rappresentato da una variabile macroeconomica che somma algebricamente il tasso di inflazione con quello di disoccupazione. Tanto per dare un metro di paragone, al secondo posto in questa graduatoria della miseria nazionale troviamo lo Yemen seguito in terza posizione dal Congo. Il Venezuela tuttavia può essere considerato una testa di serie ineguagliabile in tal classifica infatti la lettura dell’indice si avvicina quasi a 1.500 contro il 50 o 45 delle altre due nazioni sopra citate. L’inflazione venezuelana che varia da stato a stato da un minimo di 700 ad un massimo di 1500 contribuisce a proiettare il paese sudamericano in testa di classifica staccando gli altri come se fosse una gara ciclistica in cui il primo corre in scooter invece che in bici da corsa. Ricordiamo che a titolo di cronaca il Venezuela è uno stato federale suddiviso in 23 stati amministrativamente indipendenti: la nota per le cronache nere capitale Caracas rappresenta la capitale federale, proprio come Washington lo è per gli USA. Nonostante rappresenti la terza economia del continente sudamericano dopo Brasile ed Argentina, il primo paese a cui esporta e da cui importa è lo Zio Sam con oltre 1/5 dei volumi di merci e prodotti sia in ingresso che in uscita nei confronti degli States. Alla fine dello scorso anno il paese sudamericano si è distinto sui mercati finanziari per l’annuncio di un default selettivo su cui ancora oggi vi sono oggettivi dubbi di ingerenza del governo americano nei confronti delle agenzie di rating che hanno downgradato il paese.
Le conseguenze si sono presto viste sulle quotazioni delle obbligazioni nazionali emesse in dollari statunitensi che si sono portate appena poco sopra la soglia del dolore ossia 30 centesimi per ogni dollaro di debito nominale. Tale valore rappresenta una quotazione spartiacque generalmente parlando, significa che i bond holders in qualche modo confidano ancora in un possibile miracolo sulla ripresa delle quotazioni stante la nota ricchezza che caratterizza il Venezuela, che può vantare le maggiori riserve di barili di greggio nel suo sottosuolo tra gli aderenti all’OPEC. Russia e USA ad esempio che sarebbero ora al primo posto non rientrano in tale conteggio. Il Venezuela ha conquistato le prime pagine dei giornali per la grave crisi umanitaria dovuta a scarsezza di generi alimentari che sta caratterizzando la popolazione da più di un anno, crisi dovuta all’incapacità di riuscire a trovare sostentamento alimentare nonostante le minime derrate alimentari garantite dal Governo di Maduro tramite i CLAP (Comites Locales de Abastecimiento y Produccion) che offrono a chi si è preventivamente registrato una bolsa de comida ossia una busta della spesa con generi basici come farina di mais, latte, zucchero, riso e olio. Nella sua storia passata il Venezuela è stato un paese che ha ricevuto numerose ondate immigratorie, molte provenienti proprio dalla penisola italiana, oggi invece possiamo con amarezza scoprire che sta accadendo esattamente il contrario. Oltre un milione e mezzo di venezuelani è emigrato furtivamente nei paesi adiacenti, soprattutto Colombia più che Brasile per la convenienza della lingua, con la speranza di provare a ricostruirsi una nuova vita.
In Venezuela è decisamente difficile potersi rifornire di medicinali di base, detersivi, riso, burro e paradossalmente benzina. Leggendo le cronache e commenti locali di alcuni reporter che hanno trovato rifugio proprio in Colombia si narra che per le strade e nei quartieri è impossibile imbattersi in un cane o gatto randagi perché se li sono mangiati ormai da tempo. Si sostiene da tempo che il Venezuela è vittima di un complotto internazionale orchestrato con una regia occulta dello Zio Sam a fronte dei dinieghi che prima Chavez e successivamente il caudillo Maduro, i quali non hanno concesso licenze di estrazione alle società petrolifere statunitensi. Dunque perché la crisi finanziaria ed umanitaria non si è manifestata in precedenza stante l’ostilità storica tra i due paesi ? La risposta si deve attribuire a due fattori esogeni guarda caso scaturiti da scelte strategiche dello Zio Sam. In prima battuta abbiamo avuto la caduta del prezzo del petrolio che è crollato sino a 30 dollari nel 2015. Chavez è morto nel 2013 e sino ad allora ha potuto contare sui consistenti profitti che scaturivano esportando ogni giorno tre milioni di barili ad un prezzo compreso tra i 90 ed i 100 dollari. All’inizio della sua esperienza politica nel 1999 Chavez si trovava con il greggio a 10 dollari: anno dopo anno la salita dell’oro nero ha consentito di attuare un ambizioso programma di assistenzialismo sociale che ovviamente ripagava in ambito elettorale. Per questo Chavez è stato molto amato dalla sua popolazione. Maduro non ha avuto la stessa sorte, infatti il greggio è collassato tra il 2015 ed il 2016 in forza degli effetti sull’offerta mondiale dello shale oil statunitense (per chi non conosce questa tematica può farsi un’idea con questo precedente redazionale).
Il 90% dell’economia nazionale si basava e si basa ancora sugli introiti che fruttavano le esportazioni, introiti che derivavano dai milioni di barili esportati ogni giorno moltiplicati per il prezzo del greggio. Man mano che il prezzo del greggio scendeva ed iniziavano a manifestarsi i primi effetti della crisi socieconomica che ora sta vivendo il paese, migliaia di tecnici, operatori ed ingegneri dell’industria petrolifera sono andati a lavorare in altri paesi allettati dalle invitanti remunerazioni ed anche da un clima sociale meno opprimente. Lentamente questo ha prodotto una carenza occupazionale di oggetti qualificati per l’intero settore petrolifero nazionale che ha causato una significativa contrazione della capacità produttiva nazionale. Oggi il Venezuela produce circa un milione di barili di petrolio al giorno contro i tre milioni che produceva nel 2010, tanto per dare un ulteriore parametro di lettura tutti i paesi esportatori di greggio quest’anno aumenteranno la loro produzione annua, si va da un +2% di USA, Canada e Russia ad un +6% della China, mentre Caracas perderà un -5% del proprio potenziale produttivo. Non basta pertanto una risalita consistente del prezzo del greggio che già in parte si sta verificando, per assistere ad una ripresa delle quotazioni delle obbligazioni venezuelana si deve soluzionare questo deficit strutturale della produzione per carenza di manodopera e riportare la produzione ai livelli di efficienza produttiva sulla soglia dei tre milioni di barili al giorno. Scenario che purtroppo appare poco probabile e che getta ulteriori minacce sul futuro della nazione e delle sue emissioni obbligazionarie.