Sono stato recentemente in Spagna per vivere e seguire dal vivo le elezioni politiche del 20 Dicembre che a detta di molti opinion leaders indipendenti avrebbero potuto cambiare il corso della storia e mettere ancora una volta sotto scacco tutta l’Unione Europea. Queste erano ovviamente le premesse iniziali che sono state tuttavia confermate pienamente durante lo spoglio elettorale della passata domenica. Di tutte le esternazioni che sono state avanzate dai vari leaders di partito ad esito quasi completato rimarrà nella storia quella di Alberto Rivera, massimo esponente di Ciudadanos, un nuovo partito di destra sociale che per noi italiani ricorda su alcuni punti l’infelice proposta elettorale di Oscar Giannino con Fare per Fermare il declino. Rivera, astro nascente della politica spagnola ed esponente del parlamento catalano con i suoi appena 37 anni, ha così commentato l’esito elettotorale ed il successo ottenuto dal suo partito: abbiamo fatto la storia (hemos hecho historia). Con un’impostazione similare si è presentato anche Pabo Iglesias, leader e fondatore di Podemos, il nuovo partito di sinistra radicale che si ispira tanto ai compagni greci di Syriza, il quale, ad una domanda di un giornalista straniero, ha risposto in inglese con queste parole: the two parties system is ended. Sostanzialmente il bipartitismo è finito. Per la Spagna si tratta di una svolta epocale, una notte da ricordare negli anni a venire.
Sempre Iglesias, quale portavoce di Podemos, ha ancora aggiunto subito dopo lo spoglio elettorale di come debba essere letto l’esito di questa tornata elettorale ovvero sia come una volontà della popolazione spagnola di esigere ed assistere ad un sostanziale cambiamento, rompendo gli schematismi del passato, soprattutto in considerazione dei recenti scandali politici che hanno colpito alcuni esponenti del Partito Popolare di Mariano Rajoy. Inoltre Iglesias ha particolarmente ricordato come la necessità di cambiare la costituzione dando respiro e spazio alle diverse autonomie del regno spagnolo (Paesi Baschi e Catalogna) rappresentino ormai istanze popolari a cui il nuovo establishment di governo dovrà considerare e soddisfare. Putroppo proprio qui si infrangono i sogni e le aspettative degli spagnoli che hanno votato. Queste elezioni, nonostante abbiano riconfermato il Partito Popolare come la prima forza politica per consenso nel paese iberico, non consentono tuttavia alla nuova composizione parlamentare di creare una maggioranza stabile e solida. I due partiti storici che si sono alternati in questi ultimi decenni ossia Partito Popolare e PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo) hanno conseguito pesanti flessioni in termini di numero di seggi conquistati, tanto che per il PSOE (il partito di Zapatero per dare un riferimento più pratico) è stato il risultato peggiore di sempre.
I voti che hanno perduto i partiti storici sono stati spalmati ed assorbiti con diverse dinamiche tanto da Podemos (sinistra radicale) quanto da Ciudadanos (destra socialdemocratica) a seconda delle varie regioni (comunità) e sul lato pratico nessun partito ha conquistato più di 175 seggi che consentono di governare con stabilità il paese. Per la Spagna questo apre le porte ad un incubo, pensate solo che storicamente tutti gli ex primi ministri in qualità di leader della prima forza politica che rispettivamente aveva vinto le elezioni avevano sempre superato almeno la soglia dei 150 seggi, mentre oggi il PP arriva a stento a 123. Ho seguito con grande attenzione i tre giorni di tribuna politica successivi al responso delle urne ed al momento l’unico modo per provare a formare un governo è rappresentato dalla strada delle alleanze e delle coalizioni, che per definizione non possono essere considerate né stabili e né sicure. I vari commentatori politici parlano oggi di italianizzazione del Congresso e lo fanno con un’enfasi che per un’italiano lascia di stucco. Nel senso che per noi italiani ormai è quasi scontato che a guidare il nostro paese sarà una qualche accozzaglia di grandi e piccoli partiti che convergano per qualche mese su un ipotetico programma di interventi di politica economica e sociale da implementare fino a quando per l’ennesima volta si verificherà la nuova crisi di governo che imporrà una nuova chiamata alle urne.
Per uno spagnolo questo non solo è inconcepibile, ma rappresenta addirittura una minaccia da cui si vuole prendere il più possibile le distanze. Tutti i leaders politici, nonostante le tensioni e gli attriti che ci sono stati durante la campagna elettorale (ricordiamo anche il punetazo a Rajoy qualche giorno prima del 20 Dicembre) sono concordi nel considerare la criticità dell’attuale scenario spagnolo di profondo rilievo e delicatezza per il destino economico di tutta la Spagna. In questo momento, nonostante il 2015 si chiuda con una crescita propulsiva oltre il 3% per merito delle recenti riforme apportate al mercato del lavoro ed alla fiscalità per le imprese, non si può imballare il paese e mandarlo in stallo per una mancanza di convergenza ed unità politica. Il dialogo tra le diverse parti sarà la base di partenza per la creazione di una piattaforma di consenso e coesione allargata che sia prodromica alla rigenerazione di una nuova Spagna. La promessa di un nuovo milione di posti di lavoro, oltre a quello già realizzato negli ultimi due anni dal precedente governo, rappresentano l’obiettivo a cui inchinarsi soprattutto in considerazione dello scenario socioeconomico che sta caratterizzando le regioni più povere della penisola iberica. Tuttavia qualora anche gli spagnoli dovessero fallire e pertanto dovessero appoggiare o accettare un qualche governo ombra o tecnico calato dall’alto, a questo punto si aprirebbe nei successivi due semestri il rischio di un baratro per tutta l’Unione Europea, perchè oltre alla Spagna si affiancherebbero sia la Francia (con le proprie elezioni bomba) e sia il Regno Unito con il tanto ostracizzato referendum per l’abbandono dell’Europa.