Non è ancora stato chiarito a sufficienza dai media nazionali che sono concentrati esclusivamente sull’evolversi dell’epidemia in Italia, tuttavia il cigno nero non è rappresentato dalla comparsa della Polmonite di Wuhan (Wuhan Pneumonia) visto che i primi sintomi di contagio e di diffusione del patogeno risalgono almeno alla metà di gennaio, quanto piuttosto alla oil price war. Questo è l’elemento inatteso che è arrivato senza alcun avviso sui mercati azionario e li ha affossati. Andiamo per gradi e spiegamolo nel dettaglio. La settimana scorsa l’OPEC su istanza dell’Arabia Saudita ha proposto un taglio della produzione di greggio da parte di tutto il cartello petrolifero. Il governo di Rihad si era impegnato ad un taglio della produzione di un milione di barili al giorno: questo avrebbe consentito di far riprendere le quotazioni del greggio che in due settimane erano passate da 55 a 45 dollari il barile a fronte di una previsione di contenimento della domanda globale dovuta al rallentamento economico mondiale a sua volta conseguente ai vari interventi di numerose nazioni, tra cui la Cina, per contenere il propagarsi del contagio della Polmonite di Wuhan.
La Russia non è membro dell’OPEC, appartiene invece al cosiddetto NOM ossia i Non OPEC Members (conosciuto anche come il Vienna Group) che è costituito dalle seguenti nazioni: Azerbaijan, Bahrain, Brunei, Kazakhstan, Malaysia, Mexico, Oman, Russia e Sudan. La Russia aveva siglato con il cartello petrolifero guidato dall’Arabia Saudita una sorta di gentlemen agreement per concordare politiche petrolifere congiunte durante il passato triennio. Una di queste intese era rappresentata dall’impegno sovietico di tagliare ulteriormente la produzione dell’1.5% in modo tale da consentire un recupero delle quotazioni del greggio. Durante lo scorso weekend la Russia ha comunicato il suo rifiuto a tagliare la propria produzione giornaliera per non perdere quote di mercato vista la continua avanzata di tutta l’industria petrolifera non convenzionale dello shale oil americano. L’Arabia Saudita, profondamente contrariata dalla decisione, ha deciso a quel punto di revocare il suo taglio della produzione, comunicando altresì un aumento del proprio output giornaliero al fine di far cadere ulteriormente il prezzo del greggio.
I sauditi si possono permettere di estrarre sino a dieci dollari il barile ed ancora guadagnarci, mentre i sovietici si trovano in difficoltà finanziaria e produttiva con il greggio a 30 dollari. Questa scelta di scontrarsi sul mercato tra i due giganti petroliferi è stata battezzata oil price war ed ha come obbiettivo quello di contrastare l’avanzata dello shale oil statunitense ed anche di danneggiare finanziariamente e tatticamente la Russia. Da non dimenticare che nel Golfo Persico sta andando in scena una partita a scacchi a sfondo drammatico (la prima a rimetterci è proprio la Siria) per la realizzazione del nuovo gasdotto che estrarrà metano dal più grande giacimento del mondo (South Pars North Field), i cui diritti di estrazione sono per il 60% del Qatar (alleato dell’Arabia Saudita) e per il 40% dell’Iran (alleato della Russia e nemico dell’Arabia Saudita): questo video semplifica e fa comprendere il tutto. Chi oggi vive solo sull’esportazione di petrolio sa benissimo che il proprio modello di business è profondamente a rischio in quanto tra dieci anni la mobilità mondiale si sarà modificata profondamente: solo l’esportazione di gas rappresenta un’area strategia d’affari (ASA) che continuerà ad essere rilevante e non sostituibile.
Paesi come l’Arabia Saudita stanno pertanto ristrutturando tutta la loro economia ed i propri asset strategici che dovranno continuare a generare profitti per garantire il mantenimento dei privilegi ed agi della monarchia saudita. Il crollo indotto del prezzo del greggio impatterà duramente anche su tutta l’industria dello shale oil statunitense, la quale necessita di un prezzo mediamente superiore ai 40 dollari per rendere non profittevole, ma sostenibile finanziariamente tutta l’attività estrattiva. Il re-pricing di tutte le attività finanziarie a livello mondiale nel frattempo sta rappresentando il mercato delle occasioni mai viste per fare imponenti acquisti a sconto con prezzi costantemente in discesa. Mentre i piccoli risparmiatori ed investitori impauriti dalle notizie e dal bombardamento mediatico, quasi fosse iniziata la Terza Guerra Mondiale, vendono al meglio tutte le loro asset class rischiose, vi sono alcuni fondi sovrani e foreign investment authority che stanno acquistando senza reticenza tutto quello che viene svenduto a prezzzi di saldo. Tra qualche mese conosceremo come si saranno riposizionati Arabia Saudita, Cina, Russia, EAU, Norvegia e cosi via discorrendo. Un fondo comune di investimento deve vendere (per obbligo di mandato) le azioni o obbligazioni che ha in portafoglio per far fronte alle richieste di riscatto dei suoi clienti, cosa che non accade invece per le investment authority che rispondono solo al loro governo nazionale o alla famiglia reale di turno. Ricordate che quando lo spauracchio pandemia sarà alle spalle, ci ritroveremo con i tassi negativi in tutto il mondo ed anche i semplici depositi bancari diventeranno a titolo oneroso.